Sonetto XXXIII

Spesso, a lusingar vette, vidi splendere
sovranamente l’occhio del mattino,
e baciar d’oro verdi prati, accendere
pallidi rivi d’alchimìe divine.
Poi vili fumi alzarsi, intorbidata
d’un tratto quella celestiale fronte,
e fuggendo a occidente il desolato
mondo, l’astro celare il viso e l’onta.
Anch’io sul far del giorno ebbi il mio sole
e il suo trionfo mi brillò sul ciglio:
ma, ahimè, poté restarvi un’ora sola,
rapito dalle nubi in cui s’impiglia.
Pur non ne ho sdegno: bene può un terrestre
sole abbuiarsi, se è così il celeste.

Eugenio Montale
traduzione del sonetto 33
di William Shakespeare

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